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Il Contafòre

8 Dicembre 2009

Il Contafòre

“Il vecchio contastorie finì di raccontare quasi declamando. E lo fece con tanta intensità che quando smise di parlare era completamente esausto. Intorno a lui molti occhi luccicavano commossi e ci fu un attimo di silenzio assoluto. Poi cominciarono i commenti. La gente era entusiasta e guardava Michinùn come se fosse stato una reliquia. Lui stava serio, con gli occhi bassi, e pareva ancora tutto preso nella fóra. Ma appena quelli del Manuà tirarono fuori del focaccino e della polenta arrostita, l’atmosfera cambiò e i fiaschi sulla tavola fecero presto a svuotarsi…”.

Era questo uno scenario comune nelle cascine dell’Appennino, la “veglia” in cui si giocava a lippa, a morra o a tiramolino o si ascoltavano le fiabe di un contafóre. Soprattutto nelle notti lunghe d’inverno, quando la neve e il gelo bloccavano la vita e il lavoro dei cabané, il popolo della montagna. In genere scendevano nei paesi di fondovalle a fare rifornimento prima di Natale, poi, per due mesi almeno, vivevano rintanati nelle loro case sepolte dalla neve. Perché la neve dicembrina si attaccava alla terra così saldamente che ci voleva la forza del “marino” di marzo per farla squagliare.
Quale modo migliore, dunque, di passare il tempo se non quello di frequentarsi, giocare e raccontarsi storie che, passando di bocca in bocca, diventavano sempre più strane e mirabolanti? Storie che arrivavano da lontano tramite qualche errante, come le molte che riguardavano Giuanìn o Giuà o Giufà che è possibile ritrovare in tutto il bacino del Mediterraneo; o altre più propriamente autoctone, magari nei protagonisti, ma che ricalcavano canovacci fissi utilizzati a tutte le latitudini, con piena soddisfazione di Propp e della sua teoria delle funzioni. Storie che raccontavano i vecchi di casa, che a loro volta le avevano sentite da altri vecchi, e alle quali ognuno aggiungeva qualcosa in una sorta di orgoglio narrativo. Ma storie talora raccontate da contafóre pressoché professionisti, che venivano chiamati nelle diverse cascine per le loro capacità affabulatorie e la cui presenza era un vero e proprio evento a cui nessuno voleva mancare. Si narra di contafóre che giravano l’intero inverno e che non riuscivano neppure a soddisfare le richieste da quanto era forte la domanda. Del resto la comunicazione di massa era di là da venire e la fantasia del contafóre era l’unico antidoto alla miseria della realtà.

“ – Sentissi come le racconta bene le fóre – disse Paulin a suo figlio – Altro che il Rondanino del Piano.
– Ognuno ha il suo modo di contarle – disse Michinùn – e io so che il Rondanino lo fa molto bene. Mi hanno detto che lui c’ha un libro da dove le legge e che ce ne sono tante da accontentare tutte le famiglie della piana. Eh, beato lui che sa leggere. Io tutte quelle che so ce l’ho nella testa – e così dicendo si batté più volte sulla fronte con la mano aperta.
– Ma non ve l’ha mai insegnate nessuno? – domandò incuriosito Michele che proprio non riusciva a capire come potesse conoscere tante storie un uomo che viveva sperduto su quei monti e per giunta analfabeta. È vero che anche il nonno Micco non sapeva né leggere né scrivere eppure qualche fora la sapeva contare; ma qui si trattava di conoscerne a centinaia e di raccontarle davanti a famiglie intere riunite per l’apposta!
Michinùn temporeggiò un attimo prima di rispondere, poi, atteggiatosi come se dovesse dire una cosa importante, rispose: – Qualcuna me l’ha contata mio nonno che sapeva contarle bene. Qualcun’altra m’è frullata qui nella testa, all’improvviso, e non l’ho più scordata. Quando mi succede resto come stordito e mi ci vuole un po’ a riprendermi…”.

L’arte di raccontare, la funzione intellettuale che segnò il passaggio dalla preistoria alla storia. Il centro attorno a cui ruotarono poi tutte le altre arti e competenze che, senza il racconto, non sarebbero state nulla, soltanto un gesto effimero perso nella vanità del tempo. Un ramo del buddhismo giavanese arriva addirittura ad affermare che il racconto è l’unica vera realtà e tutto il resto, senza racconto, non esiste. Un po’ come l’essere parmenideo che faceva coincidere pensiero e realtà.
Che cos’è dunque il racconto? Una fuga dalla realtà o la realtà che fuggiamo? E come mai i migliori affabulatori vengono dal popolo così come il sopracitato Michinùn? Innanzitutto l’arte di raccontare appartiene all’essere dell’uomo, non all’avere. Necessita dunque di un approccio puro alla parola, incantato, quello che pare abbiano i poeti. Per raccontare bisogna lasciarsi riempire dalla parola, sentirla tambureggiare dentro di noi come bisogno assoluto, impellente. Far sì che sia essa ad imporsi su di noi e non il contrario, perché ogni controllo intellettuale la devitalizza. Se avete mai avuto occasione di ascoltare un affabulatore popolare vi siete senz’altro resi conto che in lui la parola precede il pensiero come se sgorgasse da un fiume carsico che già esiste nel suo profondo. Una sorta di attingimento all’archetipo da parte di un individuo “segnato” che, come chi ha il dono di guarire gli altri fisicamente, riesce a lenire il “male di vivere” con la parola.
Ecco dunque da dove scaturisce l’insieme di emozioni e di attese che ogni contafóre ha saputo suscitare in coloro che man mano l’hanno ascoltato: la sua voce è stata per loro l’evocazione dell’Eden perduto in cui tutto era buono e possibile, e l’eroe, in genere di poveri natali, colui che, pur trionfando e mutando gloriosamente la sua condizione, non dimentica mai chi è stato e per prima cosa rende giustizia a tutta quanta la sua gente. E in effetti la fóra ha incarnato nei secoli l’idea del riscatto della tradizione millenaristica e l’ha tramandata sino ai giorni nostri scevra dai dolorosi insuccessi dei vari tentativi rivoluzionari messi in atto dalle classi subalterne. Ha mantenuto intatta con la parola la possibilità di un’alternativa alla realtà ordinaria configurandosi anch’essa come realtà nel momento stesso del racconto. Che si è sviluppato come pratica comunitaria, condivisa, in cui sparivano le differenze e ognuno era coinvolto da protagonista. E forse è proprio di un mondo di “veglia” di cui hanno bisogno i nostri tempi, di riscoprire il piacere del viaggio fantastico nel nostro desiderio profondo di pace, di “e vissero felici e contenti”, che soltanto la parola affabulata, suprema medicina del corpo e dell’anima, è ancora in grado di dare.

Nota:
Le parti di testo virgolettate sono tratte dal libro “Careghé” scritto da Gianni Repetto, edizioni Guaraldi, 1996.

da “Per non morire di deculturazione”  di Gianni Repetto – Pesce Editore, Ovada 2011

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