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Fabulistica, affabulazione e immaginario dell’infanzia

28 Dicembre 2011

Fabulistica, affabulazione e immaginario dell’infanzia

La fiaba è il genere letterario popolare per eccellenza, sia come genesi sia come narrazione. Nasce dall’esigenza antica di ogni popolo di cambiare con l’immaginario la realtà, in genere amara e sofferta, dando vita a una sorta di mondo capovolto in cui il più debole trionfa, e lo fa riconosciuto  simpaticamente da tutti, non perché s’impone con la forza. È l’unico genere in cui il bene trionfa in modo netto, inequivocabile, sul male, che non ha mai elementi di attrazione suadenti. La contrapposizione è secca, manichea, scevra da compromessi. È un’esigenza di chi, in modo altrettanto netto, è abituato a vedere invece trionfare il male, l’arbitrio, la prepotenza con consacrata normalità.
Ma non è solo il contenuto della fiaba ad avere questa nettezza, questa icasticità. A rinforzare ulteriormente il messaggio interviene anche la forma narrativa che proprio dalla fiaba e dalla favola prende il nome di “fabula”. Narrare secondo la “fabula” vuol dire narrare una storia in modo chiaro, lineare, partendo da una situazione iniziale, proseguendo con uno sviluppo consequenziale e concludendo con un finale scontato negli esiti, ma ogni volta gratificante per la fantasia e per il sentimento. Tutto avviene secondo un ordine logico e cronologico, lo stesso che scandisce in modo semplice e ripetitivo la vita del contadino e i cicli delle sue colture. Niente a che vedere con un percorso a intreccio che non ha corrispettivo nella vita ordinaria del popolo della campagna. Ci vorrà la civiltà borghese ad affermare la capacità  e l’esigenza della mente di ripiegarsi su se stessa in percorsi di scoperta introspettiva forieri di un ampliamento dell’esperienza psichica, ma talora di assoluta ed evanescente involuzione logorroica..
Del resto la fiaba, pur nella rigidità della sua impostazione strutturale, presenta una serie di possibilità espansive che V. Propp ha analizzato con acutezza di metodo redigendone una sorta di elenco di massima. A seconda del narrante, sebbene nel rispetto narrativo innato dello schema della “fabula”, gli elementi funzionali introdotti consentono una vivacizzazione del racconto sia sul piano dell’ampiezza e dell’originalità dello sviluppo sia su quello della suspense, con picchi di climax degni della migliore narrativa d’avventura. Nella memoria degli anziani il racconto di certi “specialisti”, i cosiddetti contafóre, è tuttora di trasognato incanto, come di personaggi che sapessero catturare l’attenzione di grandi e piccini pur raccontando storie già risentite e risapute.
E qui entra in ballo il ruolo del narratore. Un racconto, qualsiasi esso sia, non riesce ad avvincere se non è raccontato in modo appassionante. Figuriamoci se poi è un racconto scontato nella sua soluzione come è poi sempre la fiaba. Occorre dunque un’interpretazione, un uso dei toni e dei registri che non può prescindere da una piena interiorizzazione da parte del narrante del racconto stesso  e dei temi che esso sviluppa. E questo non è facile da riscontrare in classi sociali costrette dalle necessità della vita a fare i conti di continuo con la realtà. Chi non li fa è un anomalo, e questa sua anomalia gli consente di raccontare fóre come se fosse “segnato” da una specie di vocazione. È l’incanto della parola che prende il sopravvento, parola non colta, ma calda, musicale, ricca di onomatopee e di formule fisse, veri e propri refrain.
Ma ha ancora senso proporre la fiaba a bambini ormai disincantati, con un immaginario frammentato, stracolmo di inferenze sempre più contraddittorie in cui il bene e il male non sono più valori contrapposti, ma le due facce equivalenti di una stessa medaglia? Di primo acchito ci verrebbe da dire di no, che il messaggio semplice e lineare della fiaba ha fatto il suo tempo e il bambino elettronicamente lobotomizzato non può provare interesse per tali proposte anacronistiche. Del resto si tratta di narrazioni statiche, in cui  lui non può intervenire spippolando su un telecomando o cliccando su un mouse. L’arco dell’attenzione non si innalzerebbe mai al di sopra della soglia del vero interesse. E invece i fatti smentiscono l’inevitabile previsione. Basta che qualcuno che ancora sappia farlo, qualche anziano vivace e che crede ancora nel suo ruolo o qualche insegnante un po’ “attore”, legga o racconti una fiaba ai bambini per ottenere il massimo di attenzione, il classico “non vola una mosca”. E appena è finita, la richiesta è di ascoltarne un’altra, come se ci fosse qualcosa che manca nell’immaginario dei bambini d’oggi. Forse, dunque, la fiaba non è anacronistica, ma anzi la sua forma narrativa è ancora una necessità nella formazione del pensiero del fanciullo che ha bisogno di un punto di vista della realtà che sia semplice, facilmente comprensibile e utilizzabile, e in cui si abbiano delle certezze che non vengano continuamente messe in discussione. Plinio il Vecchio diceva: “Natura non facit saltus”, e anche noi siamo convinti che, senza la base strutturale del pensiero e dell’immaginario fabulistico, ogni approccio alla complessità delle informazioni del presente sia a rischio di fallimento in quanto non in grado di selezionarle e di ordinarle secondo un criterio logico-razionale.
Riscoprire l’affabulazione vuol dire per il fanciullo riscoprire i nonni, che non possono essere soltanto coloro che strumentalmente lo vanno a portare o a riprendere a scuola, e con essi il passato, come conoscenza propedeutica indispensabile al presente. E così riscoprire la fantasia che addolcisce la realtà e non che la esaspera con la violenza, che la rende magica, intrigante, compiendo la necessaria mediazione tra la ragione e il sentimento. Un bambino che si addormenta sulle parole di una fiaba raccontata o letta da un nonno o da un genitore avrà senz’altro un miglior risveglio di quello che chiuderà gli occhi arrossati su un film horror concesso da certa irresponsabilità familiare.
Un’ultima considerazione: il valore interculturale della fabulistica. Ogni popolo ha elaborato e tramandato oralmente fiabe fortemente connesse ai propri territori, i cui schemi strutturali hanno però ovunque la stessa impostazione in quanto la lotta tra il bene e il male è il fondamento ontologico dell’esistenza umana a qualunque latitudine. Anzi, talora tali fiabe hanno condiviso la tipologia dei personaggi, come nel cosiddetto “ciclo dello sciocco”, rappresentato in particolare da Giufà, le cui storie furono raccolte in volumetto da Sciascia. Questo personaggio è una maschera della tradizione siciliana, ma lo è altresì di quella tunisina (Giuhà) o di quella albanese (Giucà) per non dire di quella toscana (Giovannino) o ligure-piemontese (Giuanìn), con una probabile estensione a tutta l’area mediterranea. Per quel che ci riguarda abbiamo raccolto una storia del ciclo a Mornese (Al), denominata “Bergagi”, che è l’esatto corrispettivo di una storia della tradizione tunisina con l’unica variante dell’ambiente fisico in cui si svolge: se a Mornese ci sono dei castagni a Tunisi ci sono delle palme. Ma alcuni elementi della storia è possibile riscontrarli anche in una delle storie siciliane di Giufà.
Che cosa significa tutto ciò? Innanzitutto che le idee e l’immaginario hanno sempre circolato su questa Terra anche prima che arrivasse internet. Uno magari pensa a un passato chiuso e buio e invece scopre che, proprio attraverso il filone della fabulistica e delle storie popolari, i collegamenti tra i popoli sono sempre stati intensi, mediati da viaggiatori e mercanti che non potremmo definire propriamente, con il significato che il termine ha oggi, degli “addetti ai lavori”. C’era uno scambio vivo, fatto di voglia di conoscere e di narrare, all’insegna dell’eclettismo, il cui prodotto finale era spesso una contaminazione culturale evidente, in cui elementi di mondi diversi convivevano in colorata armonia. Un grande messaggio per i nostri tempi, che di colori sembrano voler assumere solo quelli dell’intolleranza e dello scontro tra tradizioni. Un ottimo spunto per dar vita a percorsi di integrazione che facciano della scuola il luogo per eccellenza del confronto e della crescita insieme, in cui le culture si conoscono e si accettano arricchendosi reciprocamente.   

Bibliografia
Corrao F. M., a cura di, Le storie di Giufà, Sellerio, Palermo 2001
Calvino I., Sulla fiaba, Mondadori, Milano 2009
Propp V., Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1996
Boero P., Fiabe Liguri, Garzanti, Milano
Beccaria G. L., Fiabe piemontesi, Garzanti, Milano

da “Per non morire di deculturazione” di Gianni Repetto – Pesce Editore, Ovada 2011

Di Gianni Repetto
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